venerdì 27 novembre 2015

Come funziona l’accelerometro dello smartphone

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I moderni smartphone e tablet sono dotati di tre accelerometri, uno per ciascun asse, i quali permettono di determinare come viene mosso il nostro dispositivo. Molti giochi e applicazioni sfruttano questo strumento per farci pilotare aerei, astronavi e pupazzetti, ma vi sono anche programmi  gratuiti che permettono di visualizzare i dati e salvarli su file di testo. Con essi è possibile riscoprire e verificare fenomeni fisici che vanno dalla meccanica classica alla relatività generale.

Ormai prodotti in miliardi di esemplari, gli accelerometri fanno parte della famiglia dei MEMS, Sistemi micro-elettro-meccanici (Micro ElectroMechanical Systems) o micromacchine. Si tratta di strumenti e meccanismi (ingranaggi, leve, bilance, interruttori) in silicio delle dimensioni di frazioni di millimetro opportunamente sagomati e litografati con tecniche analoghe a quelle con cui si realizzano i chip dei computer.
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Alto: La massa è al centro delle armature dell’accelerometro nello smartphone. Centro: se sposto lo smartphone la massa centrale rimane fissa al suo posto e sembra muoversi rispoetto al cellulare. Basso: se le armature sono cariche registo un segnale elettrico



In Figura è  mostrato lo schema di funzionamento di un accelerometro MEMS: questo è composto da una parte centrale libera di muoversi e collegata con delle molle a quella esterna, fissa e solidale con lo smartphone. Quando agitiamo il telefono la parte esterna  si muove rispetto a quella centrale che rimane ferma, non essendo soggetta a forze e praticamente sconnessa dal resto del telefono .  Caricando elettricamente queste due parti  abbiamo a disposizione un microscopico condensatore per generare  un segnale elettrico in grado di essere registrato dal processore dello smartphone. Il condensatore, misurando di quanto  la molla viene compressa o allungata misura l’accelerazione del sistema.
Se appoggiamo il cellulare sul tavolo  possiamo  misurare l’accelerazione di gravità, diretta verso il basso lungo l’asse z. Dovrebbe valere 9.8 m/s2  (1g), anche se il nostro strumento misura circa 9.6 e non 9.8 m/s2, il che significa che non è tarato perfettamente. Se facciamo vibrare il tavolo o agitiamo il cellulare  l’accelerometro registra questo segnale.  

Se appoggiamo il cellulare sul pavimento dell’ascensore possiamo misurare come la forza apparente di gravità aumenti quando l’ascensore inizia a salire e diminuisca quando rallenta per fermarsi. In entrambi i casi sia noi che il cellulare risentiamo  di una forza aggiuntiva, o apparente, dovuta al fatto che, in virtù della prima legge di Newton, tendiamo a permanere nel nostro stato di quiete (alla partenza) o di moto (all’arrivo). Le accelerazioni misurate sono molto piccole (0.5 m/s2 o circa 5% g) ma percepibili. Su questa semplice esperienza  si basano sia  la meccanica classica a partire da Galileo e Newton che quella relativistica formulata da Einstein.  Ma  ci occuperemo di questo in un prossimo post.

L'accelerazione misurata dallo smartphone nell'ascensore.
L’accelerazione misurata dallo smartphone nell’ascensore.

(reblogged da scientificast)


giovedì 19 novembre 2015

NO. Il warp drive non esiste.

NO. Il warp drive non esiste.

E rieccoci qui con il motore ad improbabilità infinita, che però non è quello della  Guida Galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, ma la solita bufala dell’EM drive di Eagleworks e company.
Ne abbiamo parlato più volte in passato e ormai l’unica cosa affascinante è come queste assurde  affermazioni senza alcuna verifica sperimentale trovino ampio spazio nella stampa online anche seria.

L’EM drive è un motore definito “impossibile” dai loro stessi creatori e di cui:
  1. Non è stato mai pubblicato un articolo scientifico,  preprint o pubblicazione che descriva come funzioni, o quanto meno abbia misurato una reale spinta.
  2. Non è stato mai rilasciato brevetto (che giustificherebbe la segretezza che invece cela la fuffa).
  3. Le notizie usano il nome “NASA” in maniera volutamente ambigua a far credere che la NASA sia dietro a questa cosa. L’agenzia spaziale statunitense ha recentemente mollato  l’ambiguo esperimento, cautelando anche i lettori e i ricercatori dall’abuso di termini che traggono volutamente in inganno (vedi anche questo articolo su space.com).  Ad esempio qui tutta la notizia è che i (non) creatori dell’EM drive abbiano postato sul forum “NASAspaceflight”, un forum frequentato da gente esperta (che infatti li sta facendo a pezzi), ma certo non ufficiale della NASA. Qui un articolo di Forbes che li fa letteralmente a pezzi.
  4. Il technobabble alla Star Trek abbonda: Warp drive, dinamica non newtoniana ecc.

A questo punto anche io chiedo finanziamenti per il mio motore gravitazionale di nuova concezione: è già completo al 50% e in discesa funziona perfettamente.
(reblogged da scientificast

mercoledì 11 novembre 2015

Le equazioni della luce: Il corpo nero di Planck

Parte 2: Il Corpo nero di Planck



(questo post  è apparso su sito del disf, Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede nell'ambito su una serie di articoli su "La luce e la filosofia della scienza", per l'anno internazionale della luce)

Gli anni di passaggio tra il XIX e XX secolo furono testimoni anche dei primi cedimenti della teoria classica con una descrizione puramente meccanicistica della luce e della materia.
Nel caso della luce, gli studiosi del tempo notarono una forte discrepanza tra predizioni teoriche e dati sperimentali: questa differenza era particolarmente evidenti alle alte frequenze, dall’ultravioletto in poi, per cui il fisico Paul Ehrenfest la chiamò catastrofe dell’ultravioletto. Se si cercava, infatti, di derivare lo spettro delle emissioni luminose di un corpo ad alta temperatura si giungeva al paradossale risultato che l’emissione luminosa diventava infinita in prossimità dell’ultravioletto.
La derivazione dello spettro corretto della radiazione fu dovuta a Planck e alla sua assunzione che non sia possibile emettere ed assorbire quantità arbitrarie di luce, ma solo quantità discrete, “quantizzate” in pacchetti d’onda indivisibili. Questa ipotesi, apparentemente assurda ma in accordo con le misure sperimentali, fu una delle basi fondamentali della nascente meccanica quantistica.
La luce, e quindi l’onda elettromagnetica, poteva e doveva essere considerata come una serie di particelle dette fotoni. L’energia associata a ciascun fotone era proporzionale alla sua frequenza. La costante che regola questa proporzionalità prende il nome di costante di Planck ed è una delle constanti fondamentali dell’universo.
L’equazione della luce di Planck ha il nome apparentemente paradossale di equazione di corpo nero. Il termine può trarre in inganno: un corpo nero è un oggetto che emette ed assorbe la luce in ugual misura, restando in equilibrio termico con l’ambiente. Maggiore è la temperatura a cui si trova l’oggetto, maggiori sono la frequenza e l’intensità della luce emessa. La brace del fuoco appare quindi rossastra a temperature più basse e diventa bianca (sommando alla luce rossa quelle blu e verde) quando si superano i 1000 gradi Celsius. Per questo motivo nell’oscurità della notte siamo visibili alle telecamere infrarosse, costruite per captare specificatamente queste frequenze.
Anche il sole emette luce, come un corpo nero, a 6000 gradi la temperatura della sua superficie. Come accennavamo prima, i nostri occhi, in milioni di anni di evoluzione, si sono sviluppati per essere maggiormente sensibili proprio a queste frequenze. In questa maniera l’uomo e gli animali (in diversa misura e sensibilità) sono in grado di percepire i colori degli oggetti che assorbono e riemettono la luce solare.
Le altre stelle possono apparire maggiormente rosse, blu o bianche a seconda della loro temperatura superficiale. Ad occhio nudo possiamo distinguere il colore solo delle più brillanti, ovvero delle giganti rosse come Betelgeuse ed Aldebaran, ma basta fare una foto del cielo con qualche secondo di esposizione per rendersi conto della miriade di colori delle stelle del firmamento.


parte 2 di 3
qui la parte 1

lunedì 9 novembre 2015

Le equazioni della luce: le tre tappe fondamentali firmate Maxwell, Planck ed Einstein

Parte 1: Le equazioni di Maxwell


(questo post  è apparso su sito del disf, Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede nell'ambito su una serie di articoli su "La luce e la filosofia della scienza", per l'anno internazionale della luce)


Pur essendo la luce uno dei mezzi principali con cui percepiamo ed investighiamo il mondo che ci circonda, una comprensione della sua reale natura e dei fenomeni ad essa connessi  è stata possibile solo con i progressi compiuti tra il XIX e XX secolo.

Figura 1. Il campo magnetico generato da una calamita. Il carattere dipolare delle linee di forza è evidenziato dalla limatura di ferro che è attratta da esso.  
 
Un primo grande passo fu la descrizione unificata di elettricità e magnetismo, noti – ma considerati distinti – da migliaia di anni: sfregando due panni di tessuti diversi questi si caricano di cariche elettriche uguali ed opposte che generano un campo elettrico. Analogamente una calamita genera un campo magnetico[1], con poli diversi che si attraggono e uguali che si respingono (Figura 1).  
Realizzando i primi circuiti elettrici si notò che un filo percorso da corrente, quindi da cariche elettriche in movimento, genera un campo magnetico (Oersted, 1820); analogamente un campo magnetico deflette la traiettoria di una carica elettrica (Forza di Lorentz, ma derivata per primo da Oliver Heaviside nel 1889).
Questi indizi mostrarono come ci dovesse essere una relazione tra cariche elettriche e campi magnetici. Si trattava comunque di casi stazionari, e quindi non dipendenti dal tempo, che non consentivano di apprezzare l'intima connessione tra i due fenomeni, investigata inizialmente da Faraday. Nel 1831, infatti, Faraday osservò che, ponendo un circuito elettrico in un campo magnetico e aumentando o diminuendo l’intensità del campo, si generava nel circuito una corrente elettrica: la variazione di campo magnetico generava un campo elettrico che faceva muoveva le cariche nel circuito.


 


Figura 2. Il campo elettromagnetico (matrice Fμν) è rappresentato, in questo caso, da un cono a base circolare. Le sue "ombre" possono apparirci molto diverse a seconda della prospettiva Nel caso 1. come un triangolo (campo elettrico) mentre nel caso 2. come un'ellisse (campo magnetico), ma sono solo aspetti differenti dello stesso fenomeno.  
 
Successivamente Maxwell notò come variazioni di campo elettrico generavano un campo magnetico e riportò i suoi risultati in un lavoro del 1861, On physical lines of force. In questo fondamentale articolo sono presenti le quattro equazioni del campo elettromagnetico che poi prenderanno il suo nome. Esse racchiudono tutte le proprietà dei fenomeni elettrici e magnetici e ne forniscono una trattazione valida ancora oggi.
L'unificazione dei campi elettrici e magnetici in una sola teoria fu un enorme balzo in avanti concettuale. Tramite le equazioni di Maxwell è stato possibile progredire da una visione di ombre bidimensionali, rappresentate dai distinti campi elettrici e magnetici, alla comprensione del reale oggetto tridimensionale: il campo elettromagnetico (Figura 2). Ciò ha consentito di passare da un uso limitato a calamite e cariche elettrostatiche al mondo moderno, i cui progressi tecnologici sono quasi esclusivamente basati sull'eredità lasciataci da Maxwell ed i suoi colleghi.
Generatori di corrente alternata, linee di trasmissione elettrica, trasformatori e motori funzionano, basandosi su queste equazioni, con campi elettrici che variano lentamente nel tempo (ad esempio la corrente di casa è alternata a 50 Hertz, ossia oscilla 50 volte in un secondo).
 


Figura 3. Schema di un'onda elettromagnetica  
 
Nel 1865 Maxwell dimostrò, inoltre, che – a partire dalle ”sue” equazioni – era possibile ricavare l’equazione delle onde. Questa equazione si applica a qualunque tipo di fenomeno oscillante ed è quindi la stessa che descrive la propagazione delle onde acustiche, sismiche o marine. Mentre il suono è un’onda di compressione dell’aria lungo la direzione di propagazione, nelle onde elettromagnetiche ad oscillare sono i campi elettrici e magnetici, in un alternarsi periodico e sincrono. Il campo magnetico è sempre ortogonale al campo elettrico ed entrambi sono perpendicolari alla direzione di propagazione dell’onda. Le proprietà sono definite solo dalla lunghezza dell'onda elettromagnetica, ossia la distanza che l’onda percorre – a 300.000 km al secondo – mentre il campo compie una completa oscillazione (Figura 3).
Alternativamente si può usare la frequenza, il numero di oscillazioni al secondo compiute dai campi elettrici e magnetici (la lunghezza d'onda è pari alla velocità della luce diviso la frequenza). Ad esempio, le onde della radio hanno lunghezze d’onda pari a centinaia di metri (o frequenze di MHz) mentre i raggi gamma più intensi possono avere lunghezze d’onda inferiori al nucleo atomico (10-12 m, con frequenze di 1020Hz).
Maxwell e le successive misure sperimentali di Hertz confermarono che la luce visibile altro non era che un’onda elettromagnetica dove, a ciò che noi percepiamo come colori diversi, in realtà corrispondono lunghezze d'onda diverse[2].
 


Figura 4. La luce solare bianca scomposta da un prisma nei colori fondamentali.  
 
La luce visibile occupa comunque un intervallo ristrettissimo dello spettro delle onde elettromagnetiche (e.m.): tra 0.39 micrometri (rosso) e 0.7 micrometri (blu-violetto) (Figura 4). Il motivo per cui i nostri occhi si sono evoluti per ricevere queste onde non è casuale: è infatti legato al picco delle emissioni della radiazione solare, descritte da un’altra fondamentale equazione della luce, derivata da Planck.
Se l’equazione che descrive la propagazione delle onde e.m. è simile a quella delle onde sonore, marine o sismiche, vi è comunque una fondamentale differenza: un’onda e.m. è in grado di diffondersi liberamente nel vuoto senza la necessità di alcun mezzo che invece – per analogia alle onde meccaniche – si supponeva fosse indispensabile alla sua propagazione. Il problema dell’etere, immaginario supporto per le onde e.m., rimase in sospeso sino all'esperimento di Michelson–Morley del 1887.
La descrizione dell'elettromagnetismo fornita dalle equazioni di Maxwell ha anche il pregio di essere compatibile con la teoria della Relatività speciale[3]. Lorentz derivò infatti le sue trasformazioni di coordinate – alla base della successiva teoria di Einstein – proprio imponendo che dovessero lasciare immutate le equazioni di Maxwell.
Un'altro cruciale lascito delle equazioni di Maxwell è quello dell'unificazione di fenomeni e forze fondamentali della natura, alla base di tutte le ricerche di fisica fondamentale del XX e XXI secolo: la forza elettromagnetica è stata ulteriormente combinata con quella nucleare debole in una teoria ancora più generale. Gli sforzi per associare anche la forza nucleare forte e gravitazionale costituiscono una delle più ambite frontiere della ricerca della fisica moderna.



Note

[1] Il termine magnete deriva dalla città greca (ora presso Smirne, in Turchia) di Magnesia ad Sipylum dove, per la prima volta, fu rinvenuto il minerale di magnetite che esibiva queste proprietà.
[2] L’uso dei prismi aveva già permesso a Newton di mostrare come la luce bianca non fosse altro che la somma di tanti colori diversi. Questi colori furono chiamati fondamentali perché, ad un successivo passaggio nel prisma, non venivano ulteriormente scissi.
[3] È l'invarianza di questi fenomeni a confermarci che elettricità e magnetismo sono la stessa cosa. Infatti, sappiamo che una carica elettrica stazionaria genera un campo elettrico ed una in movimento genera un campo magnetico. Se quindi prendiamo un filo con una carica elettrostatica percepiamo un campo elettrico. Se invece iniziamo a muoverci rispetto al filo, la carica elettrica sarà in movimento rispetto a noi e misureremo un campo magnetico (Figura 5a e 5b). 
 


Figura 5a. Un filo con una carica elettrostatica genera un campo elettrico con linee di forza radiali  

 

Figura 5b. Se ci muoviamo rispetto al filo non percepiamo più una carica costante ma una corrente e dunque un campo magnetico con linee di forza circolari. 

mercoledì 4 novembre 2015